Ciao Barbara. Nonostante io abbia lasciato Pisa il giorno della laurea, 27 anni fa, sei in quella stretta cerchia di persone che non ho perso di vista. Io matricola, tu poco più grande eri già famosa tra gli studenti di tutti gli anni e tra i professori: portavi agli organi accademici le nostre istanze per rendere più funzionale l’appena nato “nuovo ordinamento tabella 18” che rivoluzionò l’insegnamento della Medicina. Vivevamo l’obbligo di frequenza come un altro liceo, aule vicine, pause assieme, mensa assieme, tanta biblioteca nelle ore di buco. I primi della classe, come te, sempre a dispensare a noi della ciurma sapienti consigli per affrontare corsi ed esami. Meglio gli appunti o il libro di testo? “Chiedi alla Capovani e vai sul sicuro!”
Anche mio padre (tuo prof. di Clinica Ortopedica) ti adorava, diceva che brillavi di “tua propria luce”: non certo per le “molle” (i tuoi fantastici ricci NDR) che ti tirava scherzando, o per essere figlia di Milvio, indimenticabile collega accademico suo coetaneo dalla mente visionaria che nel 1969 fondò il primo Corso di Laurea in Informatica d’Italia, ma per essere una brillantissima studentessa (ti offrì di fare l’ortopedica dopo il trenta e lode meritatissimo). Un esempio per tutti noi anche per essere stata in grado, giovanissima con il pancione a coniugare la maternità precoce con gli impegni di studio e di carriera.
C’è da chiedersi il perché di una simile tragedia: è un terreno spinoso, la psichiatria, disciplina cui hai dedicato la vita in cui capita (più che in altre discipline) che il paziente non abbia coscienza della propria malattia e del proprio stato. Ci sono gli strumenti per agire in simili situazioni? Dove finisce la libertà del paziente di rinunciare alle cure quando inizia la pericolosità sociale? Le implicazioni sono complesse: garantire le migliori cure al paziente ma anche la sicurezza di chi gli sta intorno. L’omicidio commesso da un paziente con gravi problemi psichiatrici (che, va detto ne decretano anche la difficile punibilità) è quasi sempre la punta di un iceberg, preceduto da aggressività mal controllate da più parti denunciate, notifiche alla magistratura della pericolosità sociale che sfociano in divieti di avvicinamento e piccole condanne. Sono strumenti sufficienti, o servono strutture e misure più efficaci?
Anche senza una risposta, oggi dobbiamo porci queste domande. Le dobbiamo a chi come te oggi paga con la vita e le dobbiamo alla società che senza perdere umanità ed inclusività per i pazienti problematici deve avere gli strumenti per arginare la pericolosità sociale. E’ nell’interesse di tutti, ed una riflessione trasversale è indispensabile.
Perderti così, in questo modo brutale è un colpo durissimo per la tua adorabile famiglia, per i tuoi amici, per i tuoi colleghi, per l’ospedale e per i tuoi pazienti: vedere oltre al dolore di questi giorni non è facile e tutti contribuiremo a mantenere immortale la tua testimonianza, anche se il modo più efficace di non rendere vano il sacrificio della tua vita sarebbe la scossa di coscienza all’apparato legislativo e giudiziario per riordinare, una volta per tutte questa “zona grigia” della legge, creando percorsi funzionali e strutture adeguate a contenere le condizioni che portano a simili tragedie.
Comments are closed